Con la sentenza n.13088/14 depositata il 20 marzo della Corte di Cassazione, sez.VI Penale, la Suprema Corte torna ad occuparsi del reato di maltrattamento in famiglia “adattato” al luogo di lavoro. Come già fatto in precedenza conferma che tale reato è configurabile solo quando l’azienda abbia dimensioni ridotte dal punto di vista spaziale, personale e organizzativo, tale da equiparare le relazioni tra le persone (datore di lavoro o equiparato e lavoratori) a quelle esistenti tra componenti di una famiglia in senso stretto.
La mancanza nell’ordinamento giuridico italiano di un delitto ad hoc per reprimere le vessazioni sul lavoro (previsto, ad esempio in Francia, il reato di harcèlement moral), comporta una tutela frammentata del mobbing in sede penale. Una tutela nella quale la giurisprudenza riconosce la rilevanza penale di alcune manifestazioni del fenomeno in analisi, riconducendolo a fattispecie già esistenti all’interno del codice penale (ad esempio, violenza privata, lesioni personali, estorsione, abuso d’ufficio, violenza sessuale, atti persecutori, etc.). Ma una tutela che si vede sprovvista nelle strutture aziendali di grandi dimensioni proprio della fattispecie maggiormente aderente a reprimere il mobbing: quella dei maltrattamenti.
Avv. Pietro Cotellessa